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La fine del Ramadan e il giorno di vacanza

dom 14 apr 2024 11:04 • By: Renato Pellegrini

Sul caso della scuola di Pioltello: ‘Rompere la logica della guerra culturale’

A pochi giorni dalla Pasqua, il 10 aprile, si è concluso il Ramadan, il mese in cui i mussulmani praticanti digiunano dall’alba al tramonto per ricordare il periodo nel quale Dio rivelò il Corano a Mohammad (Maometto).

Per moltissime persone, dunque, il Ramadan è tempo di preghiera, di meditazione e anche occasione propizia per riunire le famiglie e festeggiare insieme la fine del digiuno. Si tratta di una festa gioiosa, che si prolunga per ore e che non è molto dissimile dagli incontri di famiglia che i cristiani sono soliti fare quando celebrano le maggiori festività, come ad esempio il Natale o la Pasqua. Quest’anno la ricorrenza ha attirato l’attenzione, con immancabili polemiche, perché una scuola di Pioltello, comune della Lombardia, ha deciso di sospendere le lezioni proprio il 10 aprile. Cosa ci può essere di scandaloso in una decisione simile, presa all’unanimità dal Consiglio d’istituto? C’era oltre tutto una motivazione molto pratica, e cioè l’assenza dei molti alunni mussulmani che sarebbero rimasti a casa con la famiglia. C’è inoltre una norma, consentita dalla legge, che riconosce agli Istituti scolatici la libertà di fissare alcuni giorni di festività.

Tutti conosciamo la possibilità che hanno le nostre scuole di introdurre un giorno di vacanza per la festa del Patrono. Eppure la decisione ha suscitato vigorose proteste politiche, che non si sono placate nemmeno con l’intervento del presidente Mattarella, che ricordava fra il resto l’importanza di rispettare la libertà religiosa, come recita la Costituzione italiana. Forte è stata la reazione di chi ha creduto di vedere in questa concessione di un giorno di vacanza la violazione del principio di laicità dello stato.

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A mio avviso è un argomento debole. Basta solo pensare alle vacanze introdotte nel calendario scolastico per le festività cristiane, o alla presenza di un insegnante “confessionale”. Si è anche detto che se si vuole davvero mantenere i processi di integrazione interculturale già in atto, occorre che la scuola resti aperta.

Ma è davvero così? Davvero si propongono programmi o iniziative in grado di far conoscere la storia e la cultura degli altri? Non è più frequente invece richiamare gli “altri” ad adattarsi alla tradizione italiana, magari cancellando completamente la loro? Si è obiettato, ancora, che non è giusto concedere dei “riconoscimenti” a chi di fatto li nega nei loro Paesi di origine. “Loro” vogliono costruire chiese da noi, ma a “noi” lo impediscono se volessimo costruirne nei loro Paesi. Nemmeno questa obiezione è completamente vera: in Tunisia, Marocco, Egitto, Senegal, dove i cittadini sono in maggioranza mussulmani, ci sono chiese e missioni cristiane. Paolo Naso in Riforma del 12 aprile 2024 (settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi) ha giustamente messo in evidenza che non dovremmo «cadere nel gioco speculare della limitazione delle libertà religiose». La teocrazia, là dove profeti e sacerdoti impongono quella che loro chiamano volontà divina, in realtà è dominata dall’oppressione, ma anche dalla paura del confronto e del dialogo.

Termino questa mia riflessione proprio con le parole di Paolo Naso, perché il rischio di non sapere o volere dialogare è presente anche tra noi e impedisce una crescita di tutti nella ricerca della verità. «… a Monfalcone, la sindaca si fa vanto di avere chiuso due moschee. Non ha fatto una bella figura, dal momento che il Consiglio di Stato le ha intimato di riaprirle, almeno fino al reperimento di nuovi locali. «Una pentola da cui esce una puzza terribile – ha dichiarato la sindaca, in riferimento al caso –. Nessuna minaccia potrà farci arretrare. Anche questa è una guerra». Parole pesanti, decisamente povere sotto il profilo istituzionale e della convivenza che una sindaca dovrebbe tutelare e promuovere, che però ci dicono quale sia il clima in cui oggi in Italia si parla dell’Islam.

Per questo la società civile e le chiese hanno una grande responsabilità: rompere questa logica della guerra culturale e religiosa che arriva anche a casa nostra, per promuovere invece la strategia della convivenza e del dialogo. Che si nutre anche di piccoli gesti, come gli auguri che tante comunità islamiche hanno fatto alle chiese cristiane in occasione della Pasqua. E come le visite di tanti cristiani che hanno partecipato agli iftar (la festa per la fine del Ramadan) in varie moschee. Non è la soluzione di ogni problema, ma è da qui che si deve partire, dalla conoscenza dell’altro. Come racconta un antico apologo arabo, un uomo, camminando nel deserto, vide di fronte a sé un mostro violento e pericoloso. Man mano che gli si avvicinava questo mostro assumeva fattezze più rassicuranti e umane. Sempre più vicino, non faceva più paura e quando il viandante poté guardarlo in viso scoprì che era suo fratello».                                                                   



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