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Un conclave attento all’umanità

La riflessione sul conclave che si aprirà domani, mercoledì 7 maggio

Un conclave attento all’umanità

C’è una grande voglia di toto-papa e qualche volta addirittura di suggerire ai cardinali chi votare. Papa Francesco ha indicato alla chiesa strade nuove su cui camminare, strade talvolta difficili da percorrere, perché capaci di interpretare il Vangelo guardando ai bisogni e alle sofferenze delle donne e degli uomini, rendendolo parola di misericordia e non di giudizio. Questa strada, suggerita dallo Spirito santo, non può essere abbandonata.

È ben vero che a tutti non piace. Chi era ed è abituato al potere, magari al controllo delle coscienze, è incapace di percorrerla. Ma è su di essa che ha camminato Gesù, il Figlio di Dio. Lo ha fatto senza tentennamenti e senza paure. Su questa strada si incontrano persone sofferenti nel corpo e nell’anima, persone che tentano di rialzarsi dopo una caduta. È a loro che bisogna tendere la mano incoraggiandole. E di un papa che semina speranza, pronuncia parole di pace e sa sorridere hanno bisogno sia i credenti sia i non credenti.

Il mondo ha bisogno di un papa che inviti ad alzare gli occhi al cielo, a vincere l’unica dimensione in cui l’umanità si accontenta di vivere, quella orizzontale, legata profondamente alla terra, ai suoi beni, quella che appaga l’egoismo imperante. Ricordo che qualche decennio fa lessi un testo di Herbert Marcuse: L’uomo a una dimensione, che denuncia la capacità del capitalismo di omologare la cultura e di cancellare la capacità critica. In altre parole, diventa più difficile per tutti pensare a un modo di vivere diverso da quello proposto.

Annota con la solita profonda intuizione Vito Mancuso che il risultato «è l’attuale spaesamento delle coscienze», ormai incapace «di salire al di sopra dell’orizzonte immediato» per poter intravedere spazi e realtà diversi. Gesù diceva: «Non di solo pane vive l’uomo», non solo di soddisfacimenti che vengono dalla terra.

Ha bisogno di un respiro più ampio per poter cogliere tutta la ricchezza e la bellezza della vita.

Immagino un papa profondamente spirituale, che con la forza dello Spirito sappia parlare alla politica, all’economia, a chi rischia di confondere il Vangelo con l’intelligenza artificiale. È il tempo di un papa pastore, come lo è stato Francesco, che sappia stringere la mano a chi finora è stato dimenticato o messo ai margini. Con Francesco ripeto: «Questo è il papato: servizio… Che serve tutti, che serve a tutti». Possono passare in secondo ordine «i titoli attribuiti al pontefice: Vicario di Gesù Cristo, successore del principe degli apostoli, sovrano, patriarca… Via tutto; solo vescovo di Roma…» (Francesco, Spera, Mondadori, pag. 374).

Ed è necessario vivere così, in questo mondo secolarizzato. Gesù non ha pregato il Padre di togliere i cristiani dal mondo, ma di custodirli. Sogno un papa che ancora conduca la Chiesa su strade lontane dalla mondanità spirituale, perché «è peggio ancora di quella lebbra infame che, in certi momenti della storia, sfigurò così crudelmente la Chiesa» (Henry de Lubac, teologo).

Indicare una via di spiritualità alla Chiesa non vuol dire rifugiarsi esclusivamente nella preghiera. La grande sensibilità di papa Francesco ce lo ha indicato con chiarezza, quando ha aperto la porta santa nel carcere di Rebibbia per dire a tutti i carcerati del mondo, che ognuno ha diritto alla speranza e alla società civile di non abbandonare e di non escludere dall’attenzione chi ha smarrito la strada della legalità. Per la Chiesa l’apertura di una porta santa in un carcere, la prima volta nella storia, è cominciare a vivere una delle beatitudini del Vangelo: «Ero in carcere e siete venuti a farmi visita». È però difficile per un singolo oggi entrare nel carcere per incontrare un detenuto.

Lo possono attuare associazioni di volontariato, che sono una grande risorsa e un supporto in molteplici attività anche a causa della mancanza di personale. Ho insistito su questo aspetto di attenzione ai carcerati, perché la vicinanza a chi fa fatica nella vita, a chi ha sbagliato, a chi è caduto è una forma squisita e concretissima di spiritualità, che non cancella la preghiera, ma testimonia che Dio è davvero presente lì, in quelle situazioni e agisce attraverso chi concretizza la sua Parola.  Abbiamo bisogno di un papa la cui teologia ascolti il grido dei poveri, guardi alle ferite della terra, non abbia paura del dubbio che sconvolge la fede, ascolta e accolga chi abbiamo chiamato e continuiamo a chiamare “i lontani”.

Da Dio nessuno è lontano, perché nessuno è da Lui abbandonato. Fa riflettere a questo proposito quanto scrive Massimo Recalcati: «La verità del Verbo coincide, infatti, con la sua incarnazione. È la kenosis paolina. Di qui la centralità della povertà che ancora prima di essere un tema giustamente sociale, trova in questa stessa incarnazione la sua più profonda radice.

Il tempio glorioso della Chiesa cattolica si popola allora di corpi feriti: i piedi stanchi dei migranti, le cicatrici dei carcerati, la disperazione dei senzatetto e dei tossicomani, la sofferenza dei malati, i volti e i corpi dei bambini mutilati dalle guerre. Non nascondere il proprio corpo esposto nella sua umanità fragilissima sovverte la teologia del potere: non è il tempio a rendere santo il corpo, ma il corpo a rendere santo il tempio. La sua stessa morte, allora, non può essere letta come la chiusura di una parentesi poiché mantiene aperta la ferita originaria della kenosis cristiana, lo scandalo di Dio che nel suo farsi uomo si cancella come Dio». 

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