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Vermiglio

mar 08 ott 2024 • By: Alberto Mosca

Impressioni sparse su un film straordinario

Sono andato a vedere Vermiglio. Non il paese ma il film, da ritardatario, approfittando di una delle tante proiezioni straordinarie. Ero in buona compagnia, dato che la sala di Malé anche quella sera era tutta esaurita. Buon segno.

Il fatto di andarci dopo avere sentito millemila opinioni e letto altrettante recensioni mi ha dato la possibilità di verificarne personalmente l’attendibilità; ero curioso di sapere a chi avrei dato ragione e a chi no. Innanzitutto, bisogna dire che Vermiglio è proprio un gran bel film, con premi e apprezzamenti totalmente meritati.

Ecco allora qualche impressione in ordine sparso: fotografia splendida, con i grandi spazi suggestivi in ogni stagione, dai tratti segantiniani. Qualche critico ha definito la fotografia “vuota”, ma in realtà sarebbe meglio dirla essenziale, capace di dare risalto alla forza di un ambiente duro, sia per gli animali che per gli umani; essenziale e lento nello scorrere delle stagioni che scandiscono il tempo del film, lento come il mondo alpino e solandro alla metà del Novecento, come il tempo nella stalla o nel rito della distribuzione del latte caldo la mattina, tipo lattaia di Vermeer. Stagioni che nella musica sono affidate a Vivaldi e alle sue ‘quattro stagioni’, il tempo della storia.

Essenziale come i dialoghi che accompagnano il racconto, senza parole inutili, senza orpelli. Senza parolacce. Ecco, questo mi ha un po’ sorpreso. Non una parolaccia è pronunciata in 119 minuti di film. Di più, la violenza non manca, morale, psicologica, a sfondo etnico; ma mai si trova nel film una forma di violenza fisica.

E poi, l’ambientazione nel maso fuori dal paese risponde alla necessità di trovare luoghi di ripresa attendibili con una Vermiglio che naturalmente non è, non può essere quella di allora. E quindi fa un simpatico effetto vedere celebrare il matrimonio a Comasine nella chiesa di Santa Lucia (lo stesso nome della travagliata protagonista), mentre all’osteria a un certo punto si vede appesa al muro incorniciata, una fotografia della chiesa di Santo Stefano a Fraviano.

Sull’uso della lingua locale, sia essa più vera o accanto o in mischmasch con l’italiano, niente da dire. L’effetto è piacevole, la parlata a volte risulta aggiustata, è vero, ma va bene così, i puristi possono darsi buona pace.

Come detto, sala piena. E come al solito è interessante notare le reazioni del pubblico: il silenzio è stato assoluto fino all’apparizione della scena del matrimonio, in cui in tanti hanno bisbigliato “vara la césa de Comàsen”; tante le risate nel sentire le trovate del piccolo di casa, decisamente il più simpatico e provocatorio del cast, ma anche le risate amare nel vedere le “penitenze” della Ada; personaggio quest’ultimo in costante conflitto interiore, attratta da un'altra, che alla fine salva sé stessa mettendo il velo religioso e salva la famiglia prendendosi cura del figlio della sorella che va a lavorare in città, a fare la serva dai "siori". È lei forse che tra tutti rimane impressa di più, per me sicuramente.

I momenti di dura commozione vengono percepiti dal pubblico alla morte del piccolo di casa, ucciso dallo "strangolìn", incupita e solennizzata dal potente canto del requiem con l’antico stile “urlato” dei Cantori di Vermei. In tanti poi, hanno pensato ad alta voce “ie doi gemèi” vedendo due neonati allattati dalla creduta Lucia, mentre era la madre della ragazza a nutrire sia il nipotino che il figlio; non senza ammonire la Lucia a darsi una mossa, dato che latte per entrambi non ne poteva avere. Una donna, la madre, che a un certo punto sa rispondere a tono al pater familias, padre-padrone, maestro che ha facoltà, ma anche la consapevole, stringente necessità di decidere il destino dei figli: troppo duro con il primogenito e forse non si capisce bene perché; pronto a sacrificare i desideri di studio di una figlia per privilegiare quella che a suo giudizio sembra la più adatta a continuare la scuola. Uomo di principi, cui non manca qualche scheletro nell’armadio. O meglio, nel cassetto della scrivania.

Ancora è stato il pubblico a chiosare la scena in cui, nella classe dei ripetenti anziani, il siciliano Pietro dichiara al maestro di voler sposare sua figlia. Il maestro muto, sbigottito, e subito ecco il matrimonio, di fatto riparatore. “As vist come se fa a sposàrse?” dice uno; “cogni domandàrghe almén a des e per la legge dei grandi numeri la poró nar ben…”  Ecco, forse qualche spiegazione in più su come si innamorano Pietro e Lucia ci sarebbe stata; non si dicono una parola, bacio, mano et voilà è incinta. Va bene la riconoscenza per aver portato a casa dalla guerra il congiunto, però…

Cosa manca a questo film? Forse una dimensione comunitaria, di paese, che non c’è. Di fatto Vermiglio nel film non appare, nemmeno nei tratti popolari più presenti anche nell’immaginario collettivo odierno; come mancano alcune esclamazioni (nessuno dice mai “”) e a quella fontana un roc’ di lavandaie forse avrebbe fatto più figura della bellezza in bicicletta. Fisime da gente di qua, che nulla potrebbero importare al grande pubblico che ha apprezzato un film, ripeto, straordinario.

Ah, se ho spoilerato cavoli vostri, dovevate andare prima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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